Grazie Eduardo!

Sono le ventuno e trenta.

Il pubblico si affolla davanti al botteghino. Fra un quarto d’ora avrà inizio lo spettacolo. Ecco l’unico istante nel quale sento la responsabilità enorme del mio compito: questa folla è anonima, sconosciuta, esigente. E mai come in questo istante io sono fuori, ancora completamente fuori del cerchio della finzione. Non mi sento ancora convinto di ciò che dovrò essere, fra qualche minuto sul palcoscenico. Mi sento confuso alla folla e mi sembra che debba anch’io avvicinarmi al botteghino e chiedere un posto di poltrona, per assistere allo spettacolo. Fino a che la luce della ribalta non m’acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito, io non prendo, né so, né posso prendere il mio posto della finzione. I minuti inesorabili m’inseguono. E nella loro corsa mi prendono, mi travolgono, mi spingono verso la porticina del palcoscenico, che si richiude, sorda, alle mie spalle.

La barriera è chiusa.

Due tocchi al trucco. Il campanello squilla: la prima e la seconda volta.

La tela si leva.

Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l’attore.

Eduardo De Filippo

La voce di Eleonora Duse

Eleonora Duse
Eleonora Duse

Com’era?  È quasi impossibile dire: eppure ben questo bisogna che noi lasciamo in eredità alla generazioni nuove che non l’hanno veduta e sentita, e che, ascoltando le narrazioni favolose delle sue magie, cercheranno spasimando di ricrearla intera e viva e tutta invasa dall’ispirazione, per possedere almeno un istante di sogno, la tormentante gioia ch’essa diede a noi che l’udimmo.

Ecco.

Con uno sforzo in cui costringo tutto l’essere, io faccio silenzio in me perché essa parli: e io trascrivo il suono della sua parola.

Modulazioni.

Il primo carattere è questo: una voce in nessun attimo mai uguale a sé stessa, immobile in un tono, irrigidita in una nota che si ripete.

Passaggi e passaggi senza numero e senza tregua per tutta una scala  lunghissima infinita di gradazioni, per via di sfumature così varie e così delicate, che non c’è tono vicino a tono, che non si distingua dal simile per innumerevoli altri toni decrescenti o crescenti: e passaggi morbidi, liquidi, facili, come quelli delle sillabe d’un verso del Paradiso, in cui il fluire della melodia smorza tutte le precisioni dell’armonia e fa della voce un labile tiepido gorgo.

Quando l’anima è piena di dolore, di abbandono, di malinconia, o quando è piena di aspirazioni, di sogni, d’incanto, questa voce delicata e potente si distende agile, rapida e continua su su fino alle più acute vette in cui ride senza rompere o incrinar la parola, o giù giù fino al profondo dove pare che pianga senza che la parola si veli o ristagni.

Ma appena l’ira morda al cuore o la passione artigli, o la gelosia, l’odio, il furore incalzino, la bella e unita corrente si rompe, s’arresta, rimbalza, gorgoglia, violenta gli ostacoli e li travolge, e sono parole spezzate seguite da paurosi silenzi in cui l’anima s’inabissa sbiancando, urti metallici di sillabe che vibrano sonore, scatti, sibili, rombe: e gridi!

Ah i suoi gridi, che tenevano d’improvviso una intera folla, con i capelli sensibili e il brivido freddo alle spalle, sospesa con lei su quella punta di voce spasimante lassù, sopra il vertiginoso baratro della folla e della morte.

Poi… la carezza.

Le sue mani sapevano accarezzare (chi sa come, chi sa come – come bocche che baciano, come avide carni che bevono, come occhi che lacrimano, come chiome notturne che si sciolgono -carezzare e consolare, carezzare e accendere); ma la sua voce carezzava anche più, anche più, perché giungeva per ignote vie a quel più sensibile volto che ha l’anima dentro di noi; e di quell’animo la sua voce toccava le palpebre che si chiudevano, suggellava la bocca che rimaneva immota e tremante, o levava – in quel volto misterioso – pallori e fiamme che poi rimanevano a lungo come un senso di gelo o d’ardore nel sangue.

Una parola d’amore, di bontà, di compassione, di benedizione detta da Lei, era un tale balsamo che chiudeva le più orrende e velenose ferite, o le lasciava aperte, ma dava la voluttà del soffrire perché la parola si ripetesse ancora.

Il cuore al suo parlare, pareva a volte che si aprisse, come un pomo granato maturo, ma piano, senza crepito e senza strappi, come s’aprono le palpebre di un bimbo che si desta.

La sua voce era sempre musica, e solo musica: e la dominavano la dolcezza e la malinconia. Certe sue cadenze interrogative, certi tremiti di stupore, certe avviluppanti e vellutate intonazioni di amore, si approfondivano così nella nostra vita che vi risuonavano a lungo, per giorni, e settimane, e mesi, come certi profumi nel cristallo delle loro fiale, – e di tanto in tanto, anche dopo lungo tempo, un caldo gorgo di beatitudine fluiva improvviso nel cuore, perché qualche suono aveva imitata e rievocata in noi quella voce.

Ettore Cozzani, Milano, agosto 1926

Dalle memorie di Mistinguett

Mistinguett nel 1904
Mistinguett nel 1904

All’Eldorado sono rimasta circa dieci anni, dal 1897 al 1907. Lo stabile di trovava in via Strasbourg, di fronte alla Scala. L’Eldorado era molto conosciuto e faceva grandi incassi. Manteneva alta e difendeva la tradizione della canzone. Vi sono passate tutte le più grandi vedettes di Francia.

Tuttavia la mia grande ambizione era di entrare alla Scala. Da quando ero diventata una snob e recitavo con gonne ampie e sottovesti fruscianti, sognavo il teatro dirimpetto, il suo pubblico scelto e le ricche signore che lo frequentavano. Nell’attesa di potervi entrare, mi presentavo al pubblico dell’Eldorado con canzoni buffe, gesticolando. Si è detto che ho inventato lo “stile epilettico”. Ognuno diverte il pubblico come può.

L’Eldorado e la Scala avevano la stessa direzione. Non ostante questo gli artisti dei due teatri non si affiatavano. Polaire era la vedette della Scala. Un giorno andai a trovare la nostra direttrice, Madame Marchand, e le dissi: « Madame, vorrei cantare alla Scala. » Mi guardò sbalordita. « Ma, piccola mia, per passare alla Scala bisogna essere vestite in maniera conveniente… » « Appunto, Madame Marchand, sono venuta a chiederle di prestarmi uno dei bei vestiti del guardaroba del teatro. »

Poco dopo ne potevo scegliere uno splendido.

« Questo vestito è stato portato da Mademoiselle Polaire » mi disse la guardarobiera. Provai subito l’abito, ma mi sentì soffocare poiché Polaire aveva una vita sottilissima. Poi portai quella meraviglia a casa e passai una notte molto agitata. La sera seguente feci il mio ingresso alla Scala. Soffocavo nel vestito di Polaire. L’orchestra attaccò. Cantai una frase, poi… più niente. Assolutamente niente. Lasciai la scena in un silenzio di tomba. Madame Marchand mi disse « Tu non sei fatta per il pubblico elegante, sei fatta per il popolo ». Ero mortificata e disperata. Diventai impossibile, cattiva al punto che bisticciavo con tutti, tanto che per liberarsi di me sistemarono il mio camerino in cantina. Ma siccome anche la cassa si trovava nel sottosuolo, mi vendicavo esercitando rappresaglie su tutte le artiste che andavano a prendere la paga. Lasciavo insolenze a chi passava e, se mi riusciva, tiravo vasi d’acqua contro i miei colleghi. Alcuni si ribellarono ai miei scherzi. E fra questi ci fu Polaire.

Pauline Polaire, disegno di Leonetto Cappiello 1912
Pauline Polaire, disegno di Leonetto Cappiello 1912

Avevo un’ammirazione sconfinata per quest’artista. Polaire era quello che avrei voluto essere sulla scena e nella vita. I suoi quaranta centimetri di vita facevano sensazione in quell’epoca di donne formose. Tuttavia l’impresario che la scritturò per una tournée in America non apprezzava molto la sua figura sottile, poiché la presentò come “la donna più magra del mondo”. Ma a New York Polaire fu trovata graziosissima e gli americani credettero che l’impresario si era voluto burlare di loro. Per conto mio, Polaire era meravigliosa. Quando usciva dalla Scala non potevo vedere altro che i suoi capelli corti e la sua giacca d’ermellino. Reputavo che fosse un grande onore  riuscire a parlargli e l’aspettavo per ore intere. Ma lei saliva subito sulla sua carrozza e spariva al galoppo. Una sera anche questa grande vedette per farsi pagare dovette attraversare la cantina nella quale si trovava il mio camerino. Approfittai dell’occasione per gridarle « Bonsoir, Polaire! » Lei mi guardò sdegnosamente « Ehi, tu, piccola, che cosa abbiamo da spartire insieme noi due? » La odiai e mi domandavo continuamente che cosa avrei potuto farle di male. Riuscii finalmente a tendere un filo da una porta all’altra nel tratto in cui era obbligata a passare. Il suo cappello schizzò via. Mi fece punire dal direttore. Molto tempo dopo l’ho incontrata nell’Avenue des Acaces. Era seduta sopra una panchina con un’espressione d’infinita tristezza negli occhi. Io tenevo per mano una bambina. « Perché mi guarda così? » mi chiese « Perché è bella ». Allora mi si gettò tra le braccia e si mise a piangere.

Mistinguett
(Toute ma vie, Julliard 1954)